venerdì 3 agosto 2012

Il barile di Amontillado


Avevo sopportato come meglio potevo le mille offese di Fortunato; ma la volta ch'egli si lasciò andare ad insultarmi, giurai vendetta.
Voi, che conoscete a fondo la natura della mia anima, non supporrete certo che gli abbia fatto qualche minaccia. Alla fine, avrei avuto la mia vendetta: questo era un punto definitivamente fermo; ma lo stesso carattere definitivo della mia risoluzione escludeva ogni idea di rischio. Non soltanto dovevo punire, bisognava anche che punissi impunemente. Non si rimedia un torto se il castigo viene poi a ricadere su colui stesso che castiga. Così pure se il vendicatore manca di farsi conoscere da chi commise il torto.
Bisogna tenere per inteso che io, né con qualche parola né per qualche fatto, avevo dato a Fortunato ragione di dubitare della mia benevolenza. Secondo la mia abitudine continuai a sorridergli sulla faccia, e lui non indovinò che sorridevo, adesso, per il pensiero di immolarlo.
Aveva un punto debole - questo Fortunato - sebbene sotto ogni altro riguardo fosse un uomo da rispettarsi e anche da temersi. Egli si vantava d'essere un intenditore di vini. Ma di italiani che abbiano veramente la virtù dell'intenditore ce ne sono ben pochi. Per la maggior parte il loro entusiasmo è tagliato su misura in ragione del tempo e dell'occasione; tanto quanto basta a infinocchiare i millionnaires inglesi ed austriaci. Così in materia di quadri e di gioielli Fortunato, come i suoi compatrioti, era un ciarlatano; ma a proposito di vini era invece sincero. In questo io non ero da meno di lui; la sapevo lunga in fatto di prodotti italiani, e ne acquistavo
largamente tutte le volte che potevo.
Una sera, sull'imbrunire, proprio nei giorni che più infuriava il carnevale, incontrai il mio amico. Egli mi avvicinò con eccessiva cordialità. Doveva aver bevuto parecchio. Ed era mascherato. Indossava un vestito aderente, a colori contrapposti, e portava in testa un cappello conico adorno di sonagli. Fui così felice di vederlo che non avrei più finito, ritengo, di storcergli la mano.
Gli dissi: "Mio caro Fortunato, vi incontro proprio a proposito. Che bella cera avete oggi! Ma io, vedete, ho ricevuto una botte di vino che mi garantiscono per Amontillado, e ho i miei dubbi." "Come? — fece lui. — Amontillado? Una botte? È impossibile, in pieno carnevale!" 
"Difatti ho i miei dubbi, — replicai — e sono stato tanto sciocco da pagare tutto il prezzo dell'Amontillado senza prima consultarvi. Non è stato possibile trovarvi, e io non volevo perdere un'occasione." 
"Amontillado!"
"Ho i miei dubbi." 
"Amontillado!"
"E li voglio soddisfare." 
"Amontillado!"
"Giacché avete da fare, vado a cercare Lucchesi. Ha del senso critico, lui. E mi dirà..." 
"Lucchesi non è capace di distinguere l'Amontillado dallo Xeres."
"E tuttavia ci sono degli idioti che presumono se ne intenda quanto voi." 
"Andiamo." 
"Dove?"
"Nelle vostre cantine." 
"Ma no, amico mio; non voglio approfittare della vostra bontà. Vedo che siete impegnato. Lucchesi..." 
"Non ho nessun impegno; andiamo!" 
"No, amico mio. Non dico per l'impegno, ma per il raffreddore che vi tormenta, come vedo. E le cantine sono insopportabilmente umide. Sono tutte incrostate di nitro." 
"Andiamo, non importa! Il raffreddore non è niente. Amontillado! Ve l' hanno data a bere. E quanto a Lucchesi, non è capace di distinguere l'Amontillado dallo Xeres."
Così parlando Fortunato s'impadroni del mio braccio. E io, messa che mi ebbi sul viso una maschera di seta nera, e inviluppatomi in un mantello, mi lasciai trascinare al mio palazzo.  Non c'erano domestici in casa; s'erano squagliati per darsi buon tempo in onore della stagione. Avevo detto loro che non sarei ritornato prima della mattina, e dato loro l'ordine categorico di non muoversi dalla casa. Ordine che sapevo sufficiente a garantirmi la loro immediata scomparsa, dal primo all'ultimo, non appena avessi voltato le spalle.
Presi due fiaccole dai loro candelabri e, datane una a Fortunato, feci strada a furia di riverenze per svariate file di stanze sino all'androne che immetteva nelle cantine. Poi lo condussi giù per una lunga e tortuosa scala raccomandandogli di esser cauto nel seguirmi. Infine arrivammo in fondo, e ci trovammo insieme sul suolo umido delle catacombe dei Montresòrs.
Il mio amico era malfermo sulle gambe, e i sonagli del suo berretto tintinnavano ad ognuno dei suoi passi.
"E la botte?" chiese.
"È più in là — feci io. — Ma guardate come luccicano di bianco le pareti di questa cantina."
Egli si voltò a guardarmi negli occhi coi suoi due globi velati che distillavano l'umore dell'ubriachezza. 
"Il nitro? — chiese infine." 
"Nitro — risposi. — Da quanto tempo avete questa tosse?" 
"Ugh! ugh! ugh!... ugh! ugh! ugh!... ugh! ugh! Ugh!"
Non fu possibile al mio povero amico di rispondere prima di alcuni minuti.
"Non è nulla" egli disse, infine.
"Venite, — dissi io, con fermezza — torniamo via; la vostra salute è preziosa. Voi siete ricco, rispettato, ammirato, amato; siete felice come lo fui io una volta. Dovete risparmiarvi. Per me, non importa. Torniamo via; se no vi ammalerete e io non voglio averne la responsabilità. Del resto, c'è Lucchesi..." 
"Oh basta...!" esclamò.
"La tosse non significa un bel nulla. Non mi ammazzerà mica. Non si muore per la tosse." 
"Vero... vero... — risposi — ma non avevo nessuna intenzione di allarmarvi senza necessità; solo che voi dovreste prendere delle precauzioni. Ecco, un sorso di questo Médoc vi proteggerà dall'umido." E così detto feci saltare il tappo a una bottiglia che presi su da una lunga fila di bottiglie compagne coricate sulla muffa del suolo. 
"Bevete" dissi, presentandogliela.
Egli si portò la bottiglia alle labbra, guardandomi con la coda dell'occhio. Poi si fermò, accennando a me familiarmente con la testa, sicché i sonagli tintinnarono. 
"Bevo — disse — ai defunti che riposano intorno a noi!" 
"E io alla vostra salute!
Egli mi riprese il braccio, e continuammo il cammino." 
"Queste cantine — osservò — sono molto estese."
"I Montresòrs — gli risposi — erano una grande e numerosa famiglia." 
"Com'è il vostro emblema? L'ho dimenticato." 
"Un piede umano tutto in oro su campo azzurro; e schiaccia un serpe rampante che affonda le zanne nel tallone."
"E il motto?"
"Nemo me impune lacessit."
"Bello!" concluse lui.
Nei suoi occhi scintillava il vino, e i sonagli tintinnavano. Il Médoc aveva scaldato anche la mia fantasia. Attraverso muraglie di ossa ammonticchiate, intramezzate di barili e di trombe da vino, eravamo penetrati negli intimi recessi delle catacombe. Di nuovo mi fermai, e stavolta spinsi la mia audacia fino a prendere Fortunato per un braccio, più su del gomito. 
"Il nitro, — dissi — vedete, qui aumenta. Pende come muschio dalle volte. Ci troviamo sotto il letto del fiume. Le gocce dell'umidità filtrano attraverso le ossa dei morti. Venite, andiamocene, prima che sia troppo tardi. La vostra tosse..." 
"Ma non è nulla, — fece lui — continuiamo. Prima, però, un altro sorso di Médoc."
Stappai una bottiglia di Grave e gliela porsi. Egli la vuotò d'un fiato.
I suoi occhi fiammeggiarono. E si mise a ridere, e lanciò la bottiglia per aria con un gesto che non riuscii a capire. Lo guardai sorpreso. Egli ripetè il gesto, grottesco. 
"Non capite?" fece.
"No" risposi." 
"Allora non fate parte della loggia." 
"Come?"
"Dico che non siete massone." 
"Oh, si, si, — dissi — si, si." 
"Voi? Impossibile! Massone voi?" 
"Sì, lo sono" replicai.
"Un segno" diss'egli. 
"Eccolo" esclamai, tirando fuori una cazzuola di sotto alle pieghe del mio tabarro.
"Avete voglia di scherzare — fece lui retrocedendo di qualche passo. — Ma andiamo a vedere questo Amontillado.
"Sia" — convenni, riponendo l'arnese sotto il mio tabarro, e di nuovo offrendogli il braccio. Egli ci si appoggiò, pesante. Quindi riprendemmo il cammino in cerca dell'Amontillado. Passammo per una fila di basse arcate, scendemmo, passammo altri archi e ancora scendemmo, e arrivammo dentro a una cripta profonda dove l'aria impura faceva rosseggiare, più che splendere, le nostre fiaccole.
In fondo a questa cripta ne appariva un'altra meno spaziosa, le cui mura erano state rivestite di ossa umane, ammonticchiate l'una sull'altra fino alla volta alla maniera delle grandi catacombe di Parigi. Tre lati di codesta seconda cripta erano ancora ornati in questo modo, mentre dal quarto lato le ossa erano state tolte e gettate a terra, dove giacevano formando in un punto un mucchio d'una certa altezza. Attraverso il muro, rimasto in tal modo a nudo, si poteva vedere ancora una terza cripta, profonda non più di quattro piedi, larga circa tre, e alta sei o sette. Non sembrava costruita per qualche uso determinato.
Essa costituiva semplicemente l'intervallo tra due degli enormi pilastri che sostenevano la volta delle catacombe, e si addossava a uno dei granitici muri terminali di esse.
Invano Fortunato, sollevando la sua torcia infoschita, si sforzò di scrutare la profondità del recesso. La fioca luce non ci lasciò scorgere il fondo. 
"Avanti, — gli dissi — l'Amontillado è là. Lucchesi..." 
"È un ignorante" m'interruppe l'amico, e si avanzò per primo, vacillando.
Io gli tenevo dietro. In un attimo era arrivato all'estremità della nicchia, e vedendosi arrestato il cammino dalla roccia, si fermò tutto confuso e sbalordito. Un momento dopo io l'avevo incatenato al granito. C'erano infissi in questo due uncini di ferro distanti circa due piedi l'uno dall'altro in linea orizzontale. Da uno di essi pendeva una catena, dall'altro un catenaccio. Lanciare la catena attorno alla vita di Fortunato e assicurarla fu per me affare d'un minuto. Egli era troppo sbalordito per resistere. Estratta la chiave dal catenaccio, me ne uscii dalla nicchia rinculando. 
"Passate la mano sul muro, — gli dissi — e sentirete il nitro. Oh, qui è molto umido! Ancora una volta, vi scongiuro di tornare indietro. No? E allora è necessario che vi lasci. Ma prima vi prodigherò tutte le piccole attenzioni che posso." 
"L'Amontillado!" mormorò il mio amico che non si era ancora rimesso dal suo stupore. 
"Vero, — feci io — l'Amontillado."
E con queste parole misi le mani nel mucchio di ossami di cui ho già parlato.
Gettai le ossa da parte sinché venne allo scoperto una certa quantità di pietra da costruzione e di calcina, coi quali materiali, aiutandomi con la cazzuola, mi diedi fervidamente a murare l'entrata della nicchia. Avevo appena sistemato il primo strato della muratura, quando constatai che la sbornia di Fortunato era in gran parte evaporata. Il primo segno che ne ebbi fu un
gemito sordo venuto dal fondo della nicchia. Non era il grido di un ubriaco. Seguì un lungo silenzio ostinato. E sistemai il secondo strato, il terzo, il quarto; e allora sentii scuotere con rabbia la catena. Il rumore durò alcuni minuti, durante i quali, per goderne meglio, lasciai in sospeso il mio lavoro e mi sedetti tra gli ossami. Quando poi lo strepito s'acchetò ripresi la cazzuola e senza più interruzioni terminai il quinto, il sesto e il settimo strato. Così il muro m'era giunto quasi all'altezza del petto e di nuovo mi fermai, e sollevando le fiaccole feci un barlume di luce sul prigioniero.
Tutto un seguito di alte grida acute scaturì allora dalla gola di quella forma incatenata, e pareva mi respingessero violentemente indietro. Per un attimo esitai, tremai. Tirai fuori il mio stocco, e con esso mi misi a frugare dentro la nicchia. Ma un istante di riflessione bastò a rassicurarmi. Posai la mano sulla parete massiccia della catacomba e mi sentii soddisfatto. Ritornai al mio muro. E replicavo alle urla, le riecheggiavo, le accompagnavo; le sorpassavo in volume ed in forza. Così feci, e l'urlatore ammutolì.
Era mezzanotte allora, e la mia opera giungeva alla fine. Avevo terminato l'ottavo, il nono e il decimo strato. E già stavo per finire l'undicesimo, l'ultimo; cui non mancava più che una pietra da porre e murare. Era una pietra pesante e la sollevai con sforzo, poi cominciai ad adattarla al suo posto: quand'ecco scaturì dalla nicchia un ridere sordo che mi fece rizzare i capelli. Seguì una voce mesta che a stento riconobbi per quella del nobile Fortunato. 
"Ha! ha! ha!... he! he!... Una magnifica burla, a dire il vero, — fece la voce — una beffa eccellente! Ne rideremo proprio di cuore al palazzo... he! he! he!... il nostro vino!... eh! eh! 
"L'Amontillado" dissi. 
"He he! he!... he! he! he!... sicuro, l'Amontillado. Ma non si farà tardi? Non ci aspetteranno al palazzo, la signora Fortunato e gli altri? Andiamo." 
"Sì, andiamo."
"Per l'amor di Dio, Montresòr!"
"Sicuro, per l'amor di Dio!"
Ma a queste parole aspettai invano, teso in ascolto, una risposta. M'impazientii. Chiamai ad alta voce.
"Fortunato!" 
Nessuna risposta. Chiamai di nuovo.
"Fortunato!"
Silenzio.
Cacciai una torcia dentro l'apertura che ancora restava e la lasciai cadere di là. Non venne altro che un tintinnio dei sonagli. Mi sentii mancare il cuore,senza dubbio per via dell'umidità delle catacombe. Mi affrettai a compiere la mia opera.
Spinsi l'ultima pietra al suo posto e la murai. Contro il nuovo muro tornai ad innalzare l'antico baluardo di ossami che, dopo mezzo secolo, nessun mortale ha ancora rimosso.
In pace requiescat!

Edgard Allan Poe                                                                   traduzione di Elio Vittorini





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